“Elì, Elì, lemà sabactàni?”, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Quella di Cristo in croce è sempre stata un’immagine dalla grandissima potenza, nella storia dell’arte ma anche nell’immaginario comune. Siamo onesti: quella dei Vangeli non è una storia che vive di colpi di scena. A ogni Venerdì Santo segue una Pasqua. Ad ogni morte segue una Resurrezione. Eppure, nel ripercorrere il dolore di quei momenti, la potenza della Crocifissione riesce quasi a far dimenticare ciò che ne seguirà. La cristallizzazione di quel dolore, impresso come in una fotografia per millenni, la paralisi di quel sacrificio è ciò che segna veramente il cristianesimo nel suo sviluppo iconografico e nella sua trasmissione alla collettività tramite le immagini.
Non è il momento della resurrezione di Cristo a renderlo immortale, ma paradossalmente quello della Sua morte. “E morì come tutti si muore / come tutti cambiando colore”. L’atto della morte è quanto di più umano ci possa essere. Il trionfo di quel “potere vestito di umana sembianza” che lo considerava morto abbastanza, e così anche noi, una convinzione che ha avuto il potere di accompagnare i fedeli per i secoli, perché se l’uomo vive con la consapevolezza che la morte sia il più definitivo degli eventi, quella morte – fosse anche la più famosa di sempre – non può che essere considerata limitatamente come tale. Anche se a morire è in quel momento il figlio di Dio. Un sacrificio inumano perché di inumano c’è l’amore che lo muove, non l’atto in sé. E l’amore è un sentimento umano anch’esso.
Che sia per cultura generale, per la partecipazione alla messa del Venerdì Santo di anno in anno o per le reminiscenze, in qualche cassetto semichiuso della mente, di una catechesi di parecchi anni fa, ognuno di noi ha ben impresso il momento della crocifissione di Cristo. Caduta dopo caduta, il peso della croce sulla schiena, la corona di spine, la sensazione dei chiodi che affondano nella carne, le figure disperate sotto la croce. “Elì, Elì, lemà sabactàni?”. E poi c’è quel soldato, quello che offre a Gesù la spugna imbevuta quando, in punto di morte, Egli aveva chiesto di essere dissetato. Forse da bambini l’abbiamo tutti un po’ odiato, perché era l’ultimo di una lunga serie di dolori, o forse l’abbiamo semplicemente annoverato come momento quasi conclusivo di un percorso obbligato che scorreva nelle nostre menti e nelle rituali parole pronunciate dal sacerdote. Di sicuro c’è che quel soldato sia passato alla storia come una figura non positiva, come “uno dei cattivi”.
Effettivamente, in tutte e quattro le versioni dei Vangeli i soldati vengono descritti come figure ostiche rispetto a Cristo: si giocano ai dadi la sua veste, lo deridono, lo sfidano. Eppure, quel gesto, quella canna con la spugna imbevuta di aceto offerta negli ultimi istanti di vita forse non era un’azione di scherno.
Così in Luca: “anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso»” (Lc 23,36-37).
E in Marco: “alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere»” (Mc 15,34-36).
E ancora Giovanni: “dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,28-30).
E infine in Matteo: “Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!»” (Mt 27,47-49).
Se poi pensiamo al Salmo 69 (“Mi aspettavo compassione, ma invano; consolatori, ma non ne ho trovati. Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto”, Sal 69,21-22), e ancora agli inni di Qumran(“hanno tolto la bevanda della sapienza agli assetati, alla loro sete hanno fatto bere aceto, per guardare il loro errore, per comportarsi da folli nelle loro feste, perché restino intrappolati nelle loro reti”, 1 QH 4,11) capiamo subito come, effettivamente, questa immagine sia subito stata percepita come negativa.
Bisogna, però, considerare un elemento molto importante all’interno di questo quadro di analisi: sotto la croce non ci sono truppe di Giudei, i soldati sono Romani. E per i soldati romani, bere acqua e aceto non solo era normale, era anche di gran lunga preferibile alla sola acqua. Innanzitutto, per l’azione antibatterica dell’aceto che andava ad eliminare i batteri presenti nell’acqua, in modo da evitare la diffusione della dissenteria, e poi proprio perché era una bevanda il cui gusto era molto amato e l’azione molto più dissetante di quella della semplice acqua. Si mescolavano tre cucchiai di aceto all’acqua e si aggiungevano spezie e miele per migliorarne il sapore: il nome della bevanda era “posca”. Era molto economica, e quindi largamente consumata dai legionari e anche dal popolo. Marco Gavio Apicio, autore del De re coquinaria, un trattato di cucina molto noto, utilizza proprio la posca come ingrediente di alcune ricette.
E ancora, Plutarco scrive di Catone il Vecchio, parlando della sua sete: “L’acqua era ciò che beveva nelle sue campagne, tranne per il fatto che di tanto in tanto, in una sete furiosa, voleva l’aceto, o quando la sua forza veniva meno, aggiungeva un po’ di vino.” Certamente, ogni legionario beveva acqua ma, quando poteva, si dissetava proprio con la posca. Già popolare in Grecia, la posca era dunque la bevanda per eccellenza dei soldati romani, quella capace di estinguere la sete molto più dell’acqua.
In quest’ottica, pensando a quella stessa immagine della Crocifissione che tanto è impressa nel nostro immaginario, i legionari che si prendono gioco di Cristo e lo deridono non diverranno sicuramente tanti nuovi Giuseppe d’Arimatea ma, forse, quel gesto di porgere la spugna per dissetare può essere letto come atto di misericordia verso un uomo che, figlio o “cugino di Dio” che fosse, stava comunque morendo in croce. E se l’atto della Crocifissione di Gesù è così fortemente sentito dall’uomo perché vissuto nella totale umanità – una divinità che si fa più umana che mai soffrendo in nome dell’amore – allora, l’atto di porgere la posca per dissetare l’uomo che pur si stava deridendo e mandando a morire ben si inserisce come azione figlia di misericordia, un umano atto di misericordia mentre si sta realizzando il più inumano degli errori.
“Ma inumano è pur sempre l’amore / di chi rantola senza rancore”. Tutto è compiuto.

“Crocifissione”, 1457-1459, Andrea Mantegna.
In copertina un dettaglio di “Cristo crocifisso”, 1632 c., Diego Velasquez.