“Ravenna, glauca notte rutilante d’oro”
Siamo nell’Elettra, ne “Le città del silenzio”. D’Annunzio sceglie queste parole per apostrofare Ravenna, che si riveste in quest’opera di un’intrinseca promessa di rinascita.
Ravenna, capitale del mosaico, capitale dell’Impero, capitale dell’oro. Capitale di dualismi, di buio e luce, di cieli e stelle. L’angusto spazio del Mausoleo di Galla Placidia, il cui cielo viene descritto da Ungaretti come di un “azzurro intenso fino alla disperazione”, squarcia i limiti dei suoi confini in mattoni per aprirsi in altezza, emblematicamente intessuto di stelle dorate che ormai sono entrate a far parte dell’immaginario dell’arte ravennate. Quel cielo e quel dorato sono un simbolo di tutta la produzione musiva della città. “Nel buio della notte, spiragli d’oro”, per tornare a D’Annunzio. E ancora San Vitale, bagnata da una luce che sembra invadere ogni centimetro delle tessere: l’oro a Ravenna non lo si guarda, lo si respira.

“Burri Ravenna Oro”. L’oro riveste in questi mesi, ancora più del solito, l’ambiente culturale ravennate. Dal 14 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024 ha luogo al Mar – Museo d’arte della città di Ravenna, una mostra che va a ripercorrere il rapporto fra Burri e la città, il suo mosaico storico. Una relazione che l’artista ha intrattenuto a partire dagli anni Ottanta e che si è estrinsecata in un dialogo fra nero e oro, fra buio e luce, fra spiritualità e materialità. La mostra, inserita nel contesto dell’VIII Biennale del Mosaico Contemporaneo, è organizzata in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri e curata da Bruno Corà, dal 2013 presidente della Fondazione Burri.
Alberto Burri nasce nel 1915 in Umbria, a Città di Castello, si laurea in medicina e nel 1940, con il grado di tenente medico di complemento, viene chiamato alle armi e mandato in Africa settentrionale. Quale ufficiale medico è fatto prigioniero dagli inglesi in Tunisia e nel 1943 è mandato in un campo di prigionia in Texas. È lì che ha preso piede la sua vocazione di artista. Tornato in Italia, nel 1946, si stabilisce a Roma e inizia a dedicarsi esclusivamente alla pittura. Nel 1947 e nel 1948 ci sono le prime personali a Roma, alla Galleria La Margherita, e dopo un breve viaggio a Parigi nel ‘48 ha inizio una parabola che fa della pittura astratta e della matericità la base stessa della sua arte.

L’uso così preponderante dei materiali, infatti, diviene per Burri un’espressione della totale libertà con cui era solito approcciarsi ai processi creativi della sua produzione pittorica. Il materiale, la sua tangibilità, la sua consistenza e presenza fisica divengono protagonisti assoluti dell’opera.
Burri si serve di materiali ritenuti extra-pittorici, come catrame, pietra pomice, colle, ceramiche smaltate, cellotex, sacchi di iuta, ferri, argilla, legni, plastiche, segature di legno. È l’artista della materia, ne supera limiti e confini per mutarla, fonderla insieme. Lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan lo ha definito un “dermatologo dell’arte” per la cura del suo approccio alle superfici: un approccio medico, quale appunto Burri era. Artista della materia e punto saldo della corrente dell’informale materico, Burri prova a interpretare l’informe dandogli forma, cancellando inevitabilmente la linea di divisione che intercorre fra pittura e scultura e dando vita ad una pittura fortemente “scultorea”, paradossalmente astratta in maniera fortemente materica. Citando sempre Argan, potremmo definire l’arte di Burri come “una sorta di trompe l’oeil a rovescio, nel quale non è più la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura”.

L’incontro di Burri con Ravenna avviene alla fine degli anni Ottanta e più precisamente nel 1988, con l’elaborazione di un ciclo di sei grandi dipinti su cellotex eseguiti con il solo colore nero sotto il nome di San Vitale; e ancora la realizzazione del Grande Ferro R, nel 1990, per lo spazio davanti al Palazzo delle Arti e dello Sport “Mauro De André”; nel 1991 il ciclo Bisanzio, composto da altri sei dipinti sotto commissione di Raul Gardini e il Gruppo Ferruzzi e, infine, la serie del ’92-’93 Nero e Oro, riflessione ispirata alla cultura musiva di Bisanzio.
Un rapporto quindi, quello tra Burri e Ravenna, che è stato di dialogo e di confronto. La mostra “Burri Ravenna Oro” raccoglie circa cento opere dell’artista, quelle realizzate per la città e a essa ispirate e pezzi di vari periodi, dal 1953 al 1993, nei quali l’impiego dell’oro si fa tramite di una conversazione con il passato di Ravenna e con il suo presente. Un passato di mosaico e un presente di mosaico.

Questa mostra, inserita all’interno della Biennale del Mosaico Contemporaneo, non è coerente con essa solo per l’uso dell’oro che, già di per sé, costituisce un diretto ed esplicito ponte di dialogo con la città ravennate. Il curatore della Biennale, Daniele Torcellini, ha sottolineato come questa mostra avrebbe tracciato “l’impianto tematico di questa edizione, ovvero il contrasto”, costituendo il fulcro della Biennale stessa. Un contrasto, quello fra nero e oro, fra buio e luce, che accompagna come un filo invisibile l’edizione di quest’anno, mettendo in comunicazione passato e presente per reinventare il mosaico contemporaneo.
L’inserimento di foglie d’oro nei progetti grafici di Burri, fin dagli anni ’50, funge già da riferimento all’irregolarità delle opere musive delle basiliche ravvenati, al reticolo delle tessere, alla trama di disegni in cui è possibile ravvisare delle tendenze geometrizzanti ma pur sempre irregolari. Un oro frammentato, come quello delle tessere dei mosaici. Una frammentarietà che anche nella trasposizione materica dei cretti ricorda molto il mosaico. Lo stesso curatore Bruno Corà ha ricordato che “l’oro per Burri non era solo un colore, ma un materiale.”.
E questa mostra sviscera il rapporto fra l’oro – da sempre emblema di luminosità e di ricchezza, simbolo di perfezione assoluta – e il nero, associato invece all’oscurità e al buio. Quel nero che, tra la fine del Medioevo e il XVII secolo, aveva perso il suo statuto di colore diventando un “non-colore”.

Nella seconda metà del Novecento e soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, Burri è l’artista che più di tutti si serve del nero nelle sue opere, sviluppandolo in diverse gradazioni, dandovi profondità: un nero che si rifà colore. Un azzeramento linguistico che diviene linguaggio attraverso sfumature e materia.
“Dio disse: ‘Sia luce’, e fu luce”. Il nero è da sempre, nella mitologia e nella religione, immagine di un mondo precedente, di un “prima”, di una tenebra. In quest’ottica di nuova consistenza del nero, l’oro diviene luce che il nero assorbe, e il nero acquisisce una matericità che l’oro riflette, in un mosaico di relazioni che rendono le diverse consistenze delle opere di Burri ancora di più un dialogo fra astrazione e forte pregnanza fisica.

Un oro che inonda gli spazi della città già dai tempi di Galla Placidia. Un oro che si insinua nelle tessere anche nel VI secolo, avvolgendo l’epoca di Teodorico, il suo palazzo in Sant’Apollinare Nuovo, un oro che guida Martiri e Vergini andando anch’esso in processione. Circonda ogni santo. Un oro che conquista Ravenna nel 539 con Belisario, con Giustiniano che arriva fisicamente solo nella rappresentazione in San Vitale: un Giustiniano che guarda ed è guardato da Teodora da più di 1500 anni, immerso nell’oro, vestito nell’oro, con dell’oro in mano.
Lo splendente oro attraverso cui ha passeggiato Dante, l’oro di mosaici perduti, come quello che decorava per volere del vescovo Ecllesio l’abside della basilica di Santa Maria Maggiore, e in particolare la Madonna in Trono con Bambino e la sua epigrafe, in traduzione “…Genitrice del Verbo ed eternamente Vergine, e fu fatta Madre del Signore che l’aveva creata…”, che subito riporta in mente le parole messe in bocca dal Poeta a San Bernardo.
Ha accompagnato le visite di Byron, di Eliot, di Ezra Pound, di tutti gli scrittori che ne hanno tratto ispirazione. Ha incantato e segnato persino Klimt.
Ravenna, città dell’oro, città del mosaico. L’eredità di Burri e la sua poetica si ergono a rinascita della materia, desacralizzazione dell’arte, materia che muore e acquisisce nuova vita e altri significati, rifiuto dell’oggetto usato e logorato che, accanto all’oro bizantino e alla sua imperiale tradizione, si fa specchio della sincerità dell’esistenza.
D’Annunzio ha trovato a Ravenna “nel buio della notte, spiragli d’oro”, una promessa di rinascita. Nello sfaccettato buio del nero di Burri, l’oro materico. “Ravenna, glauca notte rutilante d’oro”. Il Mar e la Biennale, fino al 14 gennaio, offrono uno spiraglio in più.
