Le fonti, come si è potuto constatare, delineano un Orfeo con diverse sfumature addosso, un Orfeo sempre diverso, che si volta per i più disparati motivi. Ciò che viene messo in luce, almeno fino all’opera di Rainer Maria Rilke, è lo stato d’animo di un Orfeo che si ritrova a convivere con la propria scelta e la cui vita prende strade diverse ma di certo tutte inizialmente imbevute di dolore.
Ciò che segna sicuramente uno spartiacque nella percezione del mito, al punto da influenzare notevolmente le riletture successive, è l’ipotesi di ciò che a Euridice è successo dopo la morte, il modo in cui l’Oltretomba ha cambiato il suo essere. Euridice era sempre la stessa? Perché Orfeo non può guardarla prima di essere uscito del tutto dal regno dell’Ade? Ricordiamo che nella mitologia “dall’Ade non si ritorna, se non in sogno” e che “il mondo dei morti è un altro paese”.
Nella poesia Orfeo. Euridice. Hermes., che indubbiamente trae la sua ispirazione dal bassorilievo conservato oggi al MANN (immagine sopra), Rilke scrive:
«Ormai non era più la donna bionda che altre volte nei canti del poeta era apparsa, non più profumo e isola dell’ampio letto e proprietà dell’uomo. Ora era sciolta come un’alta chioma, diffusa come pioggia sulla terra, divisa come un’ultima ricchezza. Era radice ormai…».
Euridice è quindi un’altra Euridice, non più la fanciulla amata dal protagonista: Orfeo l’ha persa nel momento in cui il serpente ha affondato i suoi denti nella carne di lei. Può, chi è stato penetrato dalla morte, essere capace di amare? Essere capace di ‘esistere’? Si prenda in analisi l’Alcesti di Euripide, che contiene un riferimento esplicito ad Admeto come ad un Orfeo “disarmato”, e si confronti anche con il Simposio di Platone, che evidenzia nella figura di Orfeo un narcisistico desiderio, “dal momento che si era dimostrato imbelle, citaredo qual era, e non aveva osato morire per amore al pari di Alcesti, quanto piuttosto aveva cercato il modo per scendere vivo all’Ade”. Oltre agli evidenti rimandi alla figura di Orfeo, è particolarmente rilevante che anche in Euripide Alcesti, tornata al mondo dei vivi, non sia più quella di prima, almeno in un primo momento. Nel V sec. a.C., dunque, è già ravvisabile l’idea di un regno dei morti il cui segno andrebbe a permanere in qualche modo anche dopo un eventuale ritorno.
Rilke parte da un bassorilievo che guarda all’antico, ma attua una rielaborazione che vede Orfeo consapevole della propria scelta. Scrive Gesualdo Bufalino ne L’uomo invaso: «allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta». Forse il vero scopo del viaggio di Orfeo non era stato riprendere Euridice, ma ritrovare una sua contezza, ritrovare se stesso. Nel buio degli Inferi, Orfeo si gira a guardare Euridice quando scorge la luce, quella stessa luce che ha sempre rappresentato il raggiungimento di una consapevolezza.
Nel 1926, Jean Cocteau debutta a teatro con la tragedia Orphée. L’esergo dell’opera recita: «Com’è brutta la felicità che desideriamo. Com’è bella l’infelicità che abbiamo». Orfeo utilizza quello stesso dolore che ha reso universale il suo mito per arrivare a comprendere che non avrebbe più potuto ricongiungersi alla ‘sua’ Euridice.
Scrive Pavese nel 1947, in Dialoghi con Leucò: «L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto». E ancora: «Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai».
Dunque, la tragicità del voltarsi per dimenticanza, timore, bramosia, per troppo amore diventa qui un gesto deliberato, lucido, consapevole. Un’evoluzione di prospettiva che parte dalla reinterpretazione di Rilke e che si sviluppa per tutto il Novecento, toccando ogni ramo della rappresentazione artistica.
E se Monteverdi (1607), Schütz (1638), Gluck (1762), Liszt (1853-54), Stravinskij (1947) – solo per citarne alcuni – avevano messo in musica il mito rifacendosi alle fonti antiche, si può riscontrare nel testo di Roberto Vecchioni, Euridice (1993), un chiaro richiamo alla rivisitazione del mito secondo la versione che vede un Orfeo consapevole e conscio della sua scelta:
«Ma non avrò più la forza
Di portarla là fuori
Perché lei adesso è morta
E là fuori ci sono la luce e i colori
Dopo aver vinto il cielo
E battuto l’inferno
Basterà che mi volti
E la lascio alla notte
La lascio all’inverno»
Tornando a Pavese, l’Orfeo che scende nell’Ade non era più sposo e neanche più vedovo. Cercava se stesso. «Non si cerca che questo». Rilke pone le basi per una riscrittura nella quale si può trovare il senso stesso della poesia. Scrive nel 1999 la poetessa americana Louise Glück:
«I have lost my Euridice, […] / and it seems to me I have never been in better voice; / it seems these songs / are songs of a high order» (Vita Nova).
In quest’ottica, il “se stesso” che Orfeo ritrova è proprio quel dolore, punto di partenza e punto di arrivo. Un dolore di cui si nutre la sua poesia, un dolore che gli ha permesso di compiere la sua catabasi e di tornare indietro, un dolore che è sempre stato – dal primo poeta e cantore a oggi – vero motore di creazione dei capolavori.
Nel 1923, Rilke pubblicherà Sonetti a Orfeo. In particolare, nel XIII sonetto, la figura di Orfeo si immortala e immola come personificazione della poesia stessa:
«Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.
Sii sempre morto in Euridice – innalzati cantando
e, nella pura relazione, ridiscendi celebrando!».
Nella rilettura di Rilke si va, dunque, a sostituire il binomio tradizionale di amore e morte presente nella tradizione greca e latina e vi si sostituisce l’intreccio – molto più complesso – di vita e morte all’interno del concetto stesso di amore, “la registrazione, cioè, della presenza di morte dentro la vita e le sue forme più alte e intense”.
Tutto questo significato è inscritto nel semplice atto di girarsi, in quella semplice rotazione del volto.