In direzione ostinata e contraria: fra De André e Caravaggio
Era il 19 settembre 1996 e De André pubblicava il suo tredicesimo e ultimo disco: “Anime Salve”, un “elogio della solitudine” – come egli stesso lo definì durante u’esibizione live – e per certi aspetti il testamento spirituale di una carriera iniziata con la pubblicazione di “Nuvole Barocche/E fu la notte” nel 1961, il primo 45 giri pubblicato a opera della Karim. Una carriera che ha segnato la storia del cantautorato italiano, arpeggi di chitarra che ormai da decenni fanno breccia nel cuore di chi ascolta, lasciandovi un segno indelebile; quel timbro caldo che ha dato voce alle prostitute, ai Rom, ai poveri, a tutti gli abitanti della Città Vecchia, a ogni emarginato.
Fin da bambino e poi durante la giovinezza accompagnato da Paolo Villaggio, De André ha affrontato le sue giornate, le sue notti, vivendo una Genova molto diversa dalla città borghese nella quale era nato e che nel suo cognome si rivelava tale, permeandosi piuttosto di una città popolata da “creature della vita e del dolore”, come scrisse Saba nella sua poesia “La città vecchia”, riferendosi a Trieste; nei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, attraversando Via del Campo e, al contempo, la vita di tutti coloro i quali la popolavano.
Ed è proprio in questi testi, in questa sua attenzione verso gli ultimi, che è ravvisabile un percorso che attraverso lo studio, il confronto e soprattutto le canzoni di Georges Brassens, ha portato il cantautore genovese ad abbracciare quella Signora Libertà, Signorina Anarchia, che si fa strada in maniera più o meno decisa o velata in ognuna delle sue opere e che, come ha messo in luce Fabrizio Finzi -autore di un’approfondita analisi sull’aspetto anarchico dei testi di De Andrè- fa sì che egli non si limiti a mettere in luce gli strati sociali più emarginati ma ad indicare, al contempo, una concreta via di affermazione della loro dignità in contrasto con il potere.
L’anarchia, la sensibilità di estrapolare le figure da un determinato contesto dando loro una dignità e uno spessore nuovi per le pagine della musica e dell’arte in generale, sono aspetti che, a distanza di 360 anni, un altro artista aveva portato avanti, con una diversa attitudine, con un diverso obiettivo, con un diverso approccio ma, per certi aspetti, ottenendo lo stesso risultato.

Passaggi di tempo. Michelangelo Merisi, passato alla storia come Caravaggio, nasce nel 1571 da una famiglia abbastanza agiata e molto stimata. Inizia a dipingere fin dalla giovinezza, ma si trova ben presto ad affrontare una serie di vicissitudini che lo porteranno a vivere una vita irrequieta e profondamente segnata dal dolore, dalla voglia di libertà e, allo stesso tempo, da una spiccatissima propensione alla ribellione. Caravaggio non è però il mostro assassino che per anni la critica ha presentato; egli era vittima di un Paese allora “oscuro”, che in commistione al suo animo tormentato lo ha portato a diventare il pittore maledetto per eccellenza, un bohémien cinquecentesco, attribuendogli persino un’ignoranza in fatto di materia religiosa che molto si discosta dalla realtà dei fatti.
Nella sua arte, Caravaggio è sempre stato legato al pauperismo di Federico Borromeo, approcciandosi al carattere religioso con una grande consapevolezza riguardo alle fonti scritte e iconografiche, palesando una cultura in merito ai testi sacri superiore alla media.
Egli compie però una consapevole scelta: i suoi modelli sono tutti quei personaggi che “se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo” e anche ogni scenario, ogni sfondo che fa da scenografia alle sue opere, sembra lo scorcio di una qualche canzone di De André. Il primo vive in prima persona i sobborghi di Roma, il secondo quelli di Genova. Entrambi mettono in luce un’umanità che è ben lontana dalla ricca borghesia cittadina, e che trasuda di realismo. Una rappresentazione degli ultimi che è ben distante da quell’idealizzazione che generalmente è propria, ad esempio, dei soggetti religiosi, e che nelle loro opere si veste di una perfezione scaturita proprio dall’imperfezione umana.
E a proposito della religione sono numerosi i parallelismi che spiccano all’attenzione nella rielaborazione di vicende sacre che vengono però umanizzate all’interno di una cornice di realismo che accompagna ogni narrazione. “Non intendo cantare la gloria / Né invocare la grazia e il perdono / Di chi penso non fu altri che un uomo / Come Dio passato alla storia / Ma inumano è pur sempre l’amore / Di chi rantola senza rancore”. Questi i versi del primo brano di De André che tratta in toto una questione religiosa, anticipando di qualche anno il concept album de “La buona novella”. Si rende qui palese la totale umanizzazione della figura di Cristo, concepita come uomo che sbianca come un giglio sulla croce, “come tutti cambiando colore”, ed è la stessa rappresentazione che il Caravaggio fornisce di Gesù nella “Deposizione”, opera dell’inizio del Seicento, più umana che divina, che cede “di fronte all’estrema nemica”.

E ancora la famosissima “Vocazione di San Matteo”, massimo emblema della perfetta compenetrazione fra sacro e profano che è ravvisabile anche nella rappresentazioni delle donne estrapolate dall’Antico Testamento e presenti nei differenti quadri di Caravaggio: “Maddalena in estasi”,Giuditta di “Giuditta e Oloferne”, solo per citarne alcune, donne spesso amate dal pittore, tutte prostitute, tante “Bocca di rosa” che percorrono ancora un’eterna processione tra amore sacro ed amor profano.
Giuditta, in particolar modo, rappresenta un baluardo anarchico, la perfetta incarnazione della ribellione del singolo al potente, al sistema, un bombarolo al femminile: “Hai assolto e hai condannato / al di sopra di me / ma al di sopra di me / per quello che hai fatto / per come lo hai rinnovato / il potere ti è grato”.

E “Bacco” non ha forse lo stesso volto del “Suonatore di liuto”? “Lui che offrì la faccia al vento / la gola al vino e mai un pensiero / non al denaro, non all’amore né al cielo”. Il suonatore Jones, che vive per la sua libertà, per la musica e per il piacere di bere. Lui che nella sua espressione di libertà, nel suo modo di vivere la musica rappresenta un autoritratto di De André stesso. Ed è una bella coincidenza che proprio nella tela di “Bacco” sia presente, sotto forma di riflesso sulla superficie della brocca del vino, un autoritratto di Caravaggio.

Ultima opera che merita un accenno è sicuramente la “Morte della Vergine” che, nella sua totale blasfemia, pone di fronte alla morte di Maria, una morte umana, per una donna umana. E sembra di sentire De André ne “Il sogno di Maria”, quando l’angelo “alla fine d’ogni preghiera / contava una vertebra della mia schiena”, trasformando l’annunciazione in qualcosa di profondamente carnale, di estremamente fisico, come le caviglie della Vergine che tanto hanno fatto scalpore nel quadro, come quella pancia che lascia intravedere un rigonfiamento. “Madonna che in limpida fonte / ristori le membra stupende / la morte non ti vedrà in faccia / avrà il tuo seno e le tue braccia”.

De André e Caravaggio sono stati indubbiamente, nelle loro diversità, due rivoluzionari. Entrambi critici nei confronti della società. Cantori dei poveri, pittori degli emarginati.
Il cantautore genovese disse una volta che l’artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere e loro, senza dubbio, furono due grandissimi artisti.