l nudo femminile rappresenta da millenni uno dei soggetti prediletti dagli artisti: curve dolci ed eleganti, linee che hanno modificato la loro forma in concomitanza al passare degli anni, al mutare di quel concetto di bellezza assoluta e idealizzata del quale il corpo femminile – suo malgrado – è da sempre stato la massima espressione.
Un’idealizzazione che permea le pagine di qualsiasi manuale di storia dell’arte e che negli ultimi tempi, e solo in parte, sta abbandonando il suo stato di canonizzazione per abbracciare, artisticamente, una più veridica e inclusiva concezione di bellezza.
Molti sono i nudi femminili entrati a far parte della storia, resi immortali dalla forza insita nella loro rappresentazione; l’elemento che sicuramente più di tutti accomuna questi capolavori, dalle origini fino all’arte contemporanea, è la capacità degli artisti di privare l’erotismo di quel corpo nudo, esposto allo sguardo e concepito per lo sguardo, della sua carnale fisicità e di un’accezione prettamente pornografica, di elevarlo ad uno stato sublime di bellezza. Una bellezza che non è tale solo per la sensualità delle forme, per l’armonia del movimento, per la delicatezza del colore o per la carnalità della pietra, ma lo è in funzione di una purezza che l’arte, in quanto tale, adagia su ciascuna curva del corpo, accompagna ad ogni movimento.
Nell’antichità il concetto di bellezza era strettamente correlato a proporzione, armonia, ordine, nonché associato all’idea di “bene”; in quest’ottica il nudo, massima espressione ed esaltazione del corpo, assurge ad elevazione di quella stessa bellezza su cui la Grecia aveva basato gran parte dei suoi valori. La bellezza diventa eroismo, diviene espressione della divinità e, di conseguenza, di ciò che più alto e nobile possa esserci. E se in pittura il nudo femminile appare quasi come semplice copia più elegante e sinuosa del nudo maschile – grande vero protagonista delle rappresentazioni – in scultura esso compie un percorso nettamente diverso, finendo per assumere un ruolo decisamente di rilievo. In età arcaica, il fiero e maestoso nudo del kouros si scontra con i pesanti panneggi che rivestono invece la kore. È Prassitele, scultore dell’età classica, a dare maggiore spazio al nudo femminile, in particolar modo nella persona della dea Afrodite, che da questo momento diviene massima rivelazione della bellezza tanto amata dal popolo greco. Afrodite, dea della bellezza, delle arti e dell’amore, viene raffigurata sempre nella sua elegante nudità: l’Afrodite Anadiomene, appena nata dalla spuma delle onde adagiata su una conchiglia o colta nell’atto di ravvivarsi i capelli; l’Afrodite Pudica, che con le braccia si copre il pube e, a volte, il seno; l’Afrodite Callipigia, letteralmente “dalle belle natiche”. Dunque Afrodite, in tutte le sue declinazioni ed espressioni, può essere chiamata ad esempio di un casto erotismo che può ben riassumere il concetto di nudo femminile in Grecia. (In foto la cosiddetta Venere de’ Medici, statua ellenistica databile alla fine del I sec. a.C.).

Di contro, nell’antica Roma il nudo della donna assiste ad una rapida diffusione e, se da un lato il pudore delle matrone romane diviene un valore imprescindibile, dall’altro il tabù della nudità viene facilmente sdoganato nell’arte in nome dell’amore per l’estetica. Alle classiche rappresentazioni della dea Venere (il corrispettivo dell’Afrodite greca), vediamo danzatrici e donne che esprimono armonia e sensualità e che, insieme all’Afrodite greca, saranno di grande ispirazione per gli artisti che si cimenteranno nella raffigurazione di nudi femminili. (In foto due mosaici di Pompei).


Ma è sempre stato questo il valore attribuito al nudo artistico? Questa la sensibilità che ha accompagnato la lettura delle opere?
Durante il Medioevo, all’interno di un quadro sociale che vede l’arte come uno strumento utile solo alla glorificazione di Dio, le rappresentazioni di nudo femminile cessano di possedere una propria ragion d’essere e troviamo priva delle sue vesti solo la figura di Eva, spesso anche imbruttita in quanto portatrice di peccato e monito per gli uomini a non imboccare la via della perdizione. (In foto le “Storie della Genesi” scolpite da Wiligelmo nella facciata del Duomo di Modena, 1099 ca.). Anche nel Tardo Medioevo, durante il cosiddetto Gotico internazionale, le rappresentazioni sono circoscritte alla persona di Eva, ormai visibilmente più slanciata e molto più elegante nelle sue forme. Emblematica, ad esempio, la rappresentazione di Van Eyck nel Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432.

Con l’arrivo del Rinascimento, l’ottica di percezione del nudo femminile muta nuovamente e si fa ritorno ad una più libera rappresentazione della donna, soprattutto tramite richiami all’arte antica. I soggetti più ricorrenti sono Venere (fortemente paradigmatica la raffigurazione della Nascita di Venere, di Sandro Botticelli), Leda e il cigno (soggetto scelto sia da Leonardo che da Michelangelo, anche se oggi entrambe le opere, purtroppo, sono perdute) e infine le Tre Grazie (famosissime quelle di Raffaello, o ancora quelle del sopra citato Botticelli presenti alla destra di Venere nella celebre Primavera, coperte da un velo così sottile da far trasparire ogni nudità). Ogni grande artista fa ritorno, in questo periodo, al nudo. Ognuno fornisce una propria interpretazione, ognuno compie un proprio studio sulla muscolatura, sulla luce, sul movimento delle figure, e il nudo sembra essere il massimo risultato di tutte queste considerazioni. Qui il nudo non accenna ad alcuna forma di sensualità, non accenna all’erotismo, è un nudo puro e “asettico”, volto semplicemente all’analisi anatomica, alla correttezza delle proporzioni e al ritorno al concetto di bellezza idealizzata concepito dai Greci, che trascende le fattezze umane e si incarna in una nobilitazione delle forme. Il nudo rinascimentale ha segnato una pagina di grandi controversie nella storia dell’arte: il Giudizio Universale che Michelangelo ha terminato nel 1541, ad esempio, è stato considerato fin dai contemporanei un assoluto capolavoro; già nel 1564, però, Daniele da Volterra – passato alla storia come “il Braghettone” – venne incaricato da Papa Pio VI di rivestire i corpi nudi in seguito alle direttive emanate dal Concilio di Trento.
I primi sei decenni del Cinquecento, d’altro canto, segnano la data di inizio di una serie di Veneri distese e prive di abiti, l’una fortemente diversa dall’altra ma tutte molto simili fra di loro per determinati aspetti. Il primo a cimentarsi in questo tipo di rappresentazione che avrà una così grande fortuna è Giorgione, nel 1508 ca., con la sua Venere dormiente, detta anche Venere di Dresda. Dopo di lui Dürer con la sua Ninfa della fonte del 1525, e ancora Tiziano con la sua Venere di Urbino databile al 1538 (in foto), sensuale e dallo sguardo magnetico. In questa precisa fase la sensualità entra in punta di piedi e si fa sempre più strada attraverso una posa più ambigua, uno sguardo più penetrante rivolto all’osservatore, una particolare inclinazione della testa. Questo nuovo tipo di rappresentazione si presenta molto simile al passato in quanto richiamo alle statue di Afrodite di età classica ed ellenistica, ma molto più innovativo perché inizia a inserire un accenno di maggiore caratterizzazione delle donne ritratte, una più spiccata attenzione alla figurazione di donne che escono fuori da una mera idealizzazione del personaggio al quale prestano il proprio corpo per la rappresentazione, e diventano per la prima volte proprietarie di una propria qualche identità, ravvisabile in un guizzo degli occhi, in un dettaglio, in un particolare dello sfondo retrostante.

I Gentileschi, padre e figlia, dipingono ad esempio due corpi nudi e distesi, rispettivamente Danae (1622-23) e Sonno (1620-25 ca.), generando una torsione, creando un movimento del corpo con un naturalismo che affonda le sue radici in Caravaggio e che, distanziandosi dalle raffigurazioni del secolo precedente, influenza in maniera determinante le future rappresentazioni barocche. Il volto della fanciulla ritratta da Artemisia ricade sul cuscino con un’espressione beata e dettata appunto da un sonno profondo, quasi spersonificata nell’atto di lasciarsi andare ai sogni; ma il corpo, quello è il vero protagonista del dipinto, è lui che ci dice qualcosa sulla protagonista della scena, che attribuisce una personalità ben definita alla raffigurazione.
Barocco. I più grandi nomi che vengono inseriti in questo contesto, reduci da una Controriforma che aveva fatto del nudo uno dei suoi più grandi nemici, sembrano inserire nelle loro opere una sensualità, un erotismo che non hanno precedenti. La Danae di Rembrandt (1636), Venere e Cupido di Velázquez (1647 ca.) e ancor prima Angelica con l’eremita di Rubens del 1626 (in foto), si avviano con una decisione sempre maggiore a instillare nelle donne protagoniste una sensualità che, senza mai abbandonare l’eleganza, prende orami il sopravvento.

Si può notare la morbidezza della carne, l’estremo erotismo emanato dalla rotazione del collo, dalle braccia mollemente portate sotto la testa. Le stesse braccia che Goya porterà sotto la testa della sua Maja desnuda, del 1803.
A partire dall’Ottocento, si potrebbero portare come esempi di donne ritratte nella loro più totale, sensuale, erotica e sfacciata nudità moltissime opere ben note. Quasi tutti i pittori, gli scultori passati alla storia come “grandi” hanno scelto come soggetto, almeno una volta, una donna nuda. Manet, Ingres, Cabanel, Delacroix, Hayez, Canova, Van Gogh, Gauguin, Matisse, Renoir, Munch, Klimt, Modigliani, Bouguereau, Schiele, Chagall, Magritte, Dalì, Duchamp e tanti, tanti altri. Ma a quale scopo riportare un così lungo elenco? Cosa realmente accomuna tutti questi nudi femminili, dalle dee greche fino ad arrivare alle sfacciate donne di Schiele, rappresentate a gambe aperte e con lo sguardo rivolto provocatoriamente verso l’osservatore? La purezza. La purezza, che solo l’arte riesce a distendere come un manto invisibile anche sulla più sfacciata delle rappresentazioni.
Prendiamo ad esempio una delle opere che più sconvolse la critica artistica della Francia del XIV secolo. Per il Salon del 1847, lo scultore Auguste Clésinger realizzò un calco dal vero preso dal corpo di Apollonie Sabatier, donna affascinante e colta, dalla grande libertà sessuale e musa e amante del grande Baudelaire. La statua, Donna morsa da un serpente, la rappresenta mentre si contorce su di un letto di fiori, con il corpo che si spinge in torsione verso l’alto e il serpente avvinghiato al polso. La cellulite visibile sulla parte alta delle cosce e riprodotta sul marmo riporta tempestivamente l’osservatore a prendere coscienza che quella statua rappresenti la “fotografia” di una donna vera, i cui seni non sono frutto dell’immaginazione dello scultore ma di un corpo fatto di carne. Ogni curva è una curva reale, vera. La critica di allora rimase sconvolta da questi aspetti, mitigati da una più classica rappresentazione dei fiori e del volto della donna, ma pur sempre totalmente anticonformista per i tempi.

Fin dove, quindi, arriva l’erotismo e dove si ferma la pornografia? Qual è l’esatto confine, se ne esiste uno? E L’origine del mondo di Courbet – forse una delle opere più discusse di sempre – può davvero dirsi spoglia del concetto di pornografia?
Mentre la pornografia implica un atto meramente fisico, che coinvolge il corpo e non la mente, l’erotismo ha come principale presupposto il pensiero, la sfera dell’emotività. E l’arte, anche quella più sfacciatamente erotica e spinta, non ha forse come massimo compito quello di emozionare, di generare turbamento, di dare vita ad una qualsiasi forma di speculazione?
Il nudo femminile, in quest’ottica, diventa dunque una raffinata elevazione di ciò che l’arte stessa sta a significare. Con la sua eleganza, la sua sensualità e suo fascino si distacca dalla materialità della nudità e, indipendentemente dalle epoche, dal diverso scopo che in più di duemila anni è stato attribuito alla singola rappresentazione, esso assurge a massima espressione di bellezza: una bellezza idealizzata e sublimata, una bellezza tangibile e verosimile, una bellezza pudica o sfacciata, una bellezza armoniosa o spiazzante. Diversificata, varia e sfaccettata, insomma, proprio come lo è la donna stessa, che nella sua nudità diventa una tangibile dimostrazione di come gli apparentemente antitetici erotismo e purezza possano invece fondersi in perfetta armonia.