Girgenti. Tanti nomi si sono posati sulle labbra degli agrigentini, nel corso dei secoli, per dare un nome a casa propria. Akragas. Agrigentum. Kerkent. Agrigento.
Sono pochi i luoghi che riescono a conservare, indisturbatamente intatta, la magia del passato. Ed è particolare la sensazione che la stessa melodica alternanza che ci porta a far succedere un passo all’altro, quella stessa danza ritmata si è consumata su di un medesimo percorso migliaia di anni fa, su una stessa strada, con uno stesso panorama dinnanzi, magari anche con le stesse preoccupazioni nel cuore. E ad Agrigento, alla Valle dei Templi, una danza di migliaia di passi che perdura ancora oggi ha avuto inizio migliaia di anni fa, intorno al 581 a. C., per essere più precisi.
La storia di Agrigento, delle sue origini così come della sua evoluzione, è profondamente intrisa del mito. Ed è proprio un mito, quello di Icaro, che incontra oggi la storia della Valle dei Templi. Figlio di Dedalo e di Neucrate, schiava di Minosse, egli era rinchiuso col padre nel labirinto del Minotauro a Creta. L’astuto Dedalo fabbricò e adagiò sul proprio corpo e su quello del figlio delle ali di cera, ali concepite per volare basso ma per raggiungere la salvezza. La curiosità di Icaro, però, quella hybris che ogni volta, nel mito, porta all’autodistruzione, fu fatale anche per il giovane. La superbia di Icaro lo portò ad innalzarsi sempre di più, a volare sempre più in alto, ad avvicinarsi sempre maggiormente all’ignoto. E il sole con il suo calore, il più grande nemico della cera, lo fece cadere e sprofondare nel mare che da allora prende il nome di Icario. Il padre assistette inerme alla scena, vedendo le piume staccarsi – una dopo l’altra – dalle ali del figlio. Ingegno che si trasforma in distruzione.
“La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera odorosa che teneva unite le penne. Si strusse la cera; lui agitò le braccia rimaste nude, e non avendo con che remigare in aria, e invocando il padre precipitò a capofitto, e il suo urlo si spense nelle acque azzurre, che da lui presero il nome.” (Ovidio)
Ma qual è la correlazione fra Icaro e Agrigento? La statua bronzea del giovane, installazione del 2011 dell’artista polacco Igor Mitoraj, rappresenta “Icaro caduto”, privo di arti e con le ali ancora dietro la schiena.
Adagiato dinnanzi al Tempio della Concordia, il più iconico e meglio conservato del parco, l’Icaro di Mitoraj è il perfetto punto di partenza per una narrazione della Valle dei Templi in quanto, oltre a rappresentarne una delle attrazioni ormai più apprezzate dai turisti, esso si staglia sul terreno sabbioso e urla una grande contraddizione che silenziosamente, in maniera persistente ma delicata, fa da contrappeso al tempio in sottofondo, come due melodie diverse ma in armonia fra loro. Perché se Icaro rappresenta l’imperfezione per antonomasia, la disobbedienza, un’eco alla memoria di un desiderio di libertà che si scardina dai confini della regola, di contro tutta la Valle dei Templi è una rigida alternanza di regole e di simmetrie, di ordine e di bilanciamenti perfetti.
Anche oggi, con la testimonianza monca di uno splendore passato, ciò che traspare dall’osservazione delle rovine è proprio quel senso di perfetta armonia, che è riuscita a sopravvivere ai millenni e anche alla sua stessa parziale distruzione. E, nonostante il fascino delle rovine archeologiche risieda anche nell’apporto che noi stessi diamo mentalmente, nell’atto di fermarci un attimo e immaginare l’antica conformazione, i risplendenti e perduti colori, le decorazioni o, ancora, i milioni di occhi posativi sopra prima dei nostri nel corso dei secoli; nonostante l’importanza di questo personale apporto, è proprio la simmetria che ci colpisce, che ci attraversa a volte, forse, in maniera inconscia. Come inconscia è la nostra percezione della perfezione, nonostante gli innumerevoli giochi di illusione ottica concepiti dagli antichi per farcela avvertire appieno.
Ma se tutto, nella pietra, indica e conduce all’ordine e alla regola, il corpo di Icaro, monco anch’esso come gran parte dei templi e steso a terra, invita invece la nostra mente a prendere il volo – con tutta l’ironia che questa affermazione porta con sé – e ad accostare alla precisione l’imperfezione, sotto il caldo sole della Valle agrigentina.
La proporzione, ovvero l’armonica relazione delle singole parti di tutta l’opera, fra loro e con il loro insieme, si erge ad archetipo di quella misura che in Icaro è contrasto. Il kata metron greco, il cammino secondo misura per la serenità, l’equilibrio della via di mezzo si scontra con la volontà dell’uomo di tendere al divino, al cielo, di superare sé stesso per oltrepassare il limite della conoscenza.
Durante la lunga processione di passi che dal primo tempio ci conduce all’ultimo, in una laica ma religiosa contemplazione di una perfezione passata – sgretolatasi ma al contempo ancora attivamente presente – passo e sguardo si fondono quasi in un unico atto. Una processione del passo. Una processione dello sguardo. E anche una processione del pensiero. E quale pensiero può aver spinto l’uomo a concepire un così monumentale inno alla perfezione architettonica? Una tensione al divino fatta di pietra?
Non si ergono forse, tutti i templi, puntando al cielo? Un immortale tentativo di spiccare il volo, senza ali e senza cera, con la sola forza della pietra. Una perfezione che tende all’imperfezione, immortale come Icaro.
“E arso dall’amore del bello,
non avrò l’onore supremo
di dare il mio nome all’abisso
che mi servirà da tomba”
Charles Baudelaire, “I lamenti di un Icaro”
l'Autrice
Paola Pulvirenti
Mi chiamo Paola Pulvirenti, ho ventiquattro anni e frequento un master in Management dell’arte e dei beni culturali presso la Treccani. Sono nata a Leonforte, un piccolo paese nelle terre di Proserpina. Dopo aver vissuto gli anni della triennale a Catania, mi sono trasferita a Ravenna e ho concluso un percorso di laurea magistrale in storia dell’arte, volto alla tutela, alla valorizzazione e alla comunicazione del patrimonio.
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