Gian Lorenzo Bernini è stato un genio indiscusso dell’arte. Sublime e innovativo in scultura, intuitivo in architettura, abile a destreggiarsi fra i politici e i diplomatici del tempo. La sua figura non è avvolta da un’aura di mistero come quella di Caravaggio, la cui vita avventurosa e scandalosa accompagna quasi ogni narrazione che dell’artista viene tracciata. Il suo carattere non fu altero e burbero come quello di Michelangelo, che nella sua genialità dovette fare i conti con una grande reticenza nel tessere relazioni umane, perfino quando l’interlocutore era un papa. E non fu neanche scostante come il suo collega e contemporaneo Borromini che, proprio per la rivalità con Bernini e per l’incapacità di esprimersi appieno in una e per una società da cui non si sentiva compreso, finì per togliersi stoicamente la vita.
Spesso tendiamo a idealizzare questi grandi nomi del passato, a scindere l’uomo dall’artista e a focalizzarci semplicemente su quest’ultimo, quasi fosse possibile analizzare l’opera senza guardare all’uomo. E se è vero che il compito dell’arte, il suo fine ultimo, è proprio quello di avere una vita a sé stante, di distaccarsi totalmente dal suo fautore e di divenire un elemento quasi indipendente, un bene di tutti e per tutti, è anche vero che se si mira a compiere un’analisi anche superficiale di un’opera, calarla nel suo tempo e provare ad estrapolarne l’originale intento non si può prescindere dall’attenzione al suo artefice, alle sue vicende biografiche, alla commissione, alla società e perfino, talvolta, al carattere dell’artista stesso, che inevitabilmente ne condiziona in qualche modo il pensiero.
La storia dell’arte non può essere concepita come catalogazione, come successione di opere, nomi e date. Tutto ciò che costituisce lo “sfondo” della disciplina è utile tanto quando l’opera stessa, se ne si vuole compiere un’analisi. E non per questo un cattivo carattere, una vita turbolenta o una particolare propensione al prevaricamento di un artista debbano in qualche modo gettare un’ombra sulla sua attività artistica; se da un lato l’analisi di questi fattori non può venir meno nella contestualizzazione di un’opera e nella sua piena comprensione, d’altro canto essa è assolutamente irrilevante nella considerazione personale che ognuno di noi ha dell’opera in sé. D’altronde, l’opera d’arte nasce per essere fruita indipendentemente dalla conoscenza che si ha di essa, e questa non è una peculiarità che decade una volta compreso ciò che “sta dietro”, malgrado quello che si potrebbe inizialmente pensare. La Capella Sistina e la Pietà di Michelangelo nulla perdono leggendo la sua corrispondenza privata e venendo a conoscenza di alcuni tratti della sua personalità. L’artista non ne viene scalfito.
Gian Lorenzo Bernini non ha ombre che lo accompagnano platealmente nell’immaginario comune; è a detta di tutti il Michelangelo del suo secolo, ma con le capacità sociali – invece – di un Raffaello. Bernini è il pupillo del papa, il suo rapporto con l’ambiente cardinalizio e in seguito quello papale, la sua propensione all’innovazione ma, al contempo, il rispetto della tradizione, lo portarono non solo ad ottenere tutte le commissioni più importanti del tempo, ma a divenire – dopo la morte di Carlo Maderno – l’artista ufficiale dello Stato Pontificio.
Mentre Borromini era noto in tutta la città di Roma per essere un uomo casto e schivo, Bernini era invece uno il cui amore per le donne era altrettanto ben conosciuto. Lo stesso Bernini, ormai settantenne, ammise che da giovane aveva avuto “una grande inclinazione al piacere”. Ma fra tutte, la storia che più fece delle passioni e del piacere i propri protagonisti fu quella intrattenuta con Costanza Bonarelli.
Oggi, al Museo del Bargello, si può trovare un busto di donna realizzato dall’artista (immagine in copertina). Chiunque abbia visto un busto di Bernini sa che la sua peculiarità nella ritrattistica era quella di rappresentare il soggetto riuscendo a fotografarne, in qualche modo, molto più dei semplici tratti somatici; un guizzo negli occhi, lo sguardo che indugia su qualcosa in particolare, una camicia non perfettamente allacciata, la testa che si gira impercettibilmente verso qualcosa che noi non vediamo. Bernini riesce e collocare le sue opere scultoree in un hinc et nunc straordinariamente definito, rendendo l’attimo immortale. E il busto di Costanza Bonarelli porta quasi alle estreme conseguenze questo discorso, perché l’attimo che Bernini coglie è un attimo che ha un retrogusto di intimità.
Costanza era la moglie di Matteo Bonarelli, un suo assistente che lo coadiuvò nei lavori al monumento della contessa Matilde di Toscana a San Pietro. I due putti che sorreggono lo stemma vennero realizzati, ad esempio, proprio da Matteo Bonarelli, mentre la figura della Contessa, a eccezione della testa, venne secondo Baldinucci interamente scolpiti da Luigi Bernini, il fratello di Gian Lorenzo.
Non ci sono pervenuti molti dettagli circa la relazione fra i due amanti. Alcuni sostengono che Costanza sia stata la modella di Bernini per la figura dell’Amore Divino nella tomba di Urbano VIII, ma non vi è nessuna lettera, nessun commento di terzi, nessuna testimonianza di cosa effettivamente abbia caratterizzato questa relazione. L’unica testimonianza rimasta a noi posteri è proprio il busto di Costanza. Uno dei pochi busti di donna realizzati dall’artista; l’unico senza una commissione.

Ma la storia, fra i due, fu tutt’altro che romantica nel suo epilogo, e ogni possibile accezione favolistica è estirpata alla radice. Lo stesso artista la cui delicatezza seppe dare vita a capolavori immortali, non usò la stessa delicatezza come uomo.
In quegli anni, infatti, Costanza intratteneva una relazione anche con il fratello di Gian Lorenzo, Luigi. Già nel 1683 giravano voci, a Roma, di un grande alterco fra i due fratelli, proprio a causa dell’attrazione verso la donna. Bernini aveva quarant’anni all’epoca, e abitava con la madre e i suoi fratelli nella casa vicino santa Maria Maggiore, acquistata anni prima dal padre Pietro, anch’egli scultore. Quando ebbe il sospetto ci fosse una vera relazione fra i due, Gian Lorenzo disse alla famiglia che si sarebbe recato in campagna alle luci dell’alba – racconta Charles Avery – e invece disse al suo cocchiere di portarlo in Vaticano, per appostarsi davanti alla casa della donna. Qui, dopo non molto, vide insieme Luigi e Costanza, e seguì il fratello fino al cantiere di San Pietro, aggredendolo con un piede di porco e rompendogli due costole.
Ma la sua furia non si era placata. Mandò infatti il suo servitore a casa della donna e le fece sfregiare il volto con una lametta, così che nessuno potesse più ammirare quella stessa bellezza che lo aveva distrutto. Aspettò poi che il fratello tornasse a casa, e lo aggredì nuovamente impugnando una spada e terrorizzando la madre. Luigi riuscì a scappare e ad entrare nella porta della vicina Santa Maria Maggiore, sapendo che il fratello non avrebbe avuto il coraggio, neanche in preda ad una cieca ira, di ucciderlo lì dentro. E Avery scrive infatti che si limitò a “prendere a calci la porta”.
Bernini era uno degli uomini più in vista di Roma, ciò nonostante neanche la sua fama e le sue amicizie potevano fare sì che un tentato omicidio passasse sotto silenzio, neanche nella Roma del diciassettesimo secolo. La madre di Bernini, Angelica, scrisse dunque al nipote del papa, il cardinale Francesco Barberini, che era a capo dei lavori di San Pietro e che era dunque anche il diretto superiore dello scultore; gli chiese di mitigare la pena da infliggere al figlio e di tentare piuttosto di farlo rinsavire, perché si comportava come il “padron del mondo”. Gian Lorenzo, alla fine, si limitò a dover pagare una multa di 3.000 scudi, una somma alta per l’epoca ma pari al prezzo che un cardinale avrebbe facilmente pagato per un suo busto realizzato dallo scultore. Luigi, una volta riprese le forze, fu costretto a partire e a trasferirsi a Bologna e il 15 novembre Pietro Paolo Drei prese il suo posto come “soprastante” a San Pietro, affiancando Gian Lorenzo come braccio destro.
Il papa ritenne che l’umiliazione pubblica di Bernini fosse una punizione abbastanza grave. Scrive Domenico, figlio dello scultore, che papa Urbano mandò l’assoluzione del delitto scritta in pergamena, “in cui appariva un Eluogio della sua virtù degno di tramandarsi alla memoria del Posteri. Perché in essa veniva assoluto non con altro motivo, che, perché era eccellente nell’arte”. Urbano apostrofa infatti Bernini come “un uomo raro, un genio sublime, nato per divina ispirazione e per la gloria di Roma a dare lustro a questo secolo”.
Finiscono qui le conseguenze. Finisce qui la vicenda. Bernini viene caldamente invitato dal papa a prendere moglie e il 15 maggio 1639 sposa Caterina Tezio, la più bella donna di Roma. “Docile senza biasimo, Prudente senza raggiri, Bella senza affettazione”. Bernini disse di lei ad Urbano che “potea ben’ella dirsi un dono conservato dal Cielo per un quale grand’huomo”. I due andarono a vivere in una casa a quattro piani in via della Mercede, vicino piazza di Spagna, ed ebbero undici figli, nove dei quali gli sopravvissero.
E Costanza? Innanzitutto il suo busto fu inviato da Bernini a Giovan Carlo de Medici; esposto dal 1645 nella Galleria degli Uffizi e in seguito trasferito al Museo del Bargello, dove ancora oggi si può ammirare.
Costanza, dal canto suo, fu sicuramente una donna che visse la sua vita e la sua sessualità con libertà, in un periodo in cui il ruolo della donna era relegato all’ambito della moglie e madre amorevole e dedita alla casa. Fu una donna molto intelligente, oltre che di bell’aspetto, e riuscì a rimettersi in piedi anche dopo la violenza subita. Venne inizialmente rinchiusa nel Monastero di Casa Pia, dove venivano confinate le donne dal comportamento immorale, ma dopo pochi mesi scrisse una lettera al Governatore di Roma, Giovanbattista Spada, chiedendo di essere rimandata a casa e descrivendo le condizioni di miseria nelle quali versava. Il marito, ancora profondamente innamorato di lei, la riaccolse a casa e avviò un’attività di commercio di opere. Egli morì nel 1654 e le lascò ogni suo bene. La Piccolomini – cognome da nubile di Costanza – si rese conto della floridità del mercato dell’arte e, diversificando gli investimenti, diminuendo i rischi e acquistando anche stoffe, abiti, mobili e gioielli proseguì l’attività in solitaria, divenendo a tutti gli effetti un’imprenditrice.
Di Costanza, oggi, ci rimane solo quel busto. Bernini scrive che “per riuscire in un ritratto, bisogna fissare un atteggiamento e cercare di rappresentarlo bene. Il momento migliore che si può scegliere per la bocca è quando il modello finisce di parlare o comincia a parlare”. E dunque il busto di Costanza Bonarelli rimane oggi, al Museo del Bargello, con la bocca socchiusa, in un ormai eterno lieve slancio. A me piace pensare che la bocca sia socchiusa perché aspetta di accogliere delle parole. E mi piace pensare che venga consegnata alla storia non immobile, ma con qualcosa da dire. Il “cosa”, però, lo lasco immaginare a ciascuno di voi.