Lo scrittore e lo spazio, tra Perec e Calvino

4 Nov 2024 | Letteratura, Libri, Riflessioni

È particolarmente interessante il rapporto che intercorre fra uno scrittore e lo spazio. Forse per la bidimensionalità che si genera – immediatamente – con la creazione di uno perimetro per la storia, l’oscillazione che lo scrittore subisce fra il suo spazio e quello della sua narrazione. Forse per la materialità grafica delle parole, la possibilità di scomparire dietro di esse o di esserne inglobati e palesarsi fra le righe; la creazione di luoghi meticolosamente reali o incredibilmente fantastici. Lo spazio diventa del tutto plastico, sfondo e protagonista.

In pittura e in scultura è meno evidente, probabilmente per la percezione già “fisica” dello spazio rappresentato nel caso di un quadro, o la spazialità già conquistata da un’opera scultorea, tangibile e reale, nostra.

Nella scrittura, le parole definiscono – sì – uno spazio, ma la fisicità vera e propria è qualcosa che assume colori e forme diverse passando per il fruitore. Lo scrittore si trova quindi a navigare fra una spazialità reale e una immaginifica; ma nel secondo caso è consapevole che, probabilmente, per il lettore essa avrà altre forme, sfumature differenti, passerà per tante traiettorie quante saranno le persone che leggeranno.

Come si conquista, allora, lo spazio con la penna? Due autori del secolo scorso, amici e colleghi, hanno provato a dare una loro personale risposta attraverso il corso di tutta la loro produzione.

Georges Perec, scrittore francese appartenente al gruppo OuLiPo, L’officina di letteratura potenziale, ha provato in molte delle sue opere ad indagare il rapporto tra spazio e scrittura tramite la classificazione metodica e quasi matematica, per mezzo di una meticolosissima conquista di spazi. Scrivendo e descrivendo, espugnando con la penna, invadendo con la carta: classificando, appunto.

Le parole, per Perec, hanno sempre avuto una consistenza quasi tangibile, e grazie all’ispirazione che ha ricavato dalla loro materialità è stato capace di sviluppare un’impalcatura tutta nuova di processi semantici ed esperimenti linguistici: si è appropriato dello spazio circostante, della sua storia, del tempo, di storie reali o inventate proprio a colpi di classificazioni. Scrive nel suo romanzo Lo spazio:

“Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.”

E ancora:

“I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà […]. Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi:

Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.”

Scrivere diventa uno strumento di conquista dello spazio. Uno strumento di sopravvivenza, di persistenza rispetto al vuoto, di conservazione.

Italo Calvino scrive in Lezioni Americane che “nessuno è più immune di Perec dalla piaga peggiore della scrittura d’oggi: la genericità”. Quelli che Burgelin chiama “i luoghi d’instabilità, d’insostenibile leggerezza della lettera del senso” vengono percorsi da Perec con la scelta minuziosa di ogni parola da utilizzare. Ed è proprio questa scelta così esatta della parola a fare sì che, in Perec, lo spazio assuma tutto il poetico potere evocativo che potenzialmente ha insito.

“Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati.” (Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, 1969).

È qualche anno prima, nel 1967, che Calvino si trasferisce a Parigi e traduce I fiori blu di Raymond Queneau. L’8 novembre del 1972 si ritrova per la prima volta a un pranzo dell’OuLiPo, in veste di “invitato d’onore”, proprio per un’idea di Queneau. L’anno successivo, un 14 febbraio, Calvino diviene ufficialmente il “membro straniero” del gruppo. Per la prima volta, Calvino materializza che “l’io dell’autore nello scrivere si dissolve: la cosiddetta ‘personalità’ dello scrittore è interna all’atto dello scrivere, è un prodotto e un modo della scrittura”.

Lo spazio, che per Calvino ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella piena realizzazione di personaggi e vicende, già a partire da I nostri antenati, assume una sua concretizzazione dapprima in bilico fra il fiabesco e l’immaginifico, e sempre più tendente allo scollamento dal reale e alla conquista di uno spazio altro.

Ne Le città invisibili, il confine fra spazio fisico e spazio mentale viene cancellato man mano dai dialoghi fra Marco Polo e Kublai Khan e la città ideale diventa “quella su cui aleggia un pulviscolo di scrittura che non si sedimenta né si calcifica”. E ancora in Se una notte d’inverno un viaggiatore assistiamo ad un totale abbattimento della quarta dimensione, un meta-romanzo dove lo spazio occupato dal Lettore non è quello che plana sulle righe ma che le popola.

Calvino palesa una tendenza non tanto all’introspezione, quanto piuttosto ad un’accoglienza dello spazio circostante, reale o immaginario, che emerge in moltissimi dei tratti della sua poetica. Si potrebbero ancora citare la funzione dello specchio in Palomar, il “mondo che guarda il mondo” che sottolinea ulteriormente questo “narcisismo cosmico” (Bacherlard), o ancora lo specchio del Perseo in Lezioni Americane, in cui il riflesso diviene un mezzo fondamentale affinché agisca lo sguardo indiretto, baluardo dell’intera poetica di Calvino stesso. In questa dissoluzione di compattezza che conduce alla mobilità, alla leggerezza, lo spazio riesce a diventare un’entità tanto potente da essere riflessa anche all’esterno del romanzo stesso, o inglobandone il lettore al proprio interno.

E infine le città fisiche, reali. Scrive Calvino in Eremita a Parigi: “Da alcuni anni ho una casa a Parigi, e vi passo una parte dell’anno, ma finora questa città non compare mai nelle cose che scrivo. Forse per poter scrivere di Parigi dovrei staccarmene, esserne lontano: se è vero che si scrive sempre partendo da una mancanza, da un’assenza. Oppure dovrei esserci più dentro, ma per questo dovrei averci vissuto fin dalla giovinezza: se è vero che sono gli scenari dei primi anni della nostra vita che danno forma al nostro mondo immaginario, non i luoghi della maturità”. Quella stessa Parigi che lo ha unito a Perec e la cui presenza si afferma con decisione in Collezione di sabbia, non a caso l’opera più enciclopedica – e classificatoria, per certi versi – di Calvino.

Sempre da Eremita a Parigi: “Col metrò sono sempre stato in confidenza, dalla prima volta che sono arrivato a Parigi in gioventù, perché il metrò mi ha dato la sensazione di possedere la città. […] Ecco, il sogno di essere invisibile. Io, quando mi trovo in un ambiente in cui posso illudermi di essere invisibile, mi trovo bene.”

E forse la volontà dello scrittore è proprio questa. Di scomparire come si fa in mezzo alla folla che aspetta un metrò, fra le pagine del libro a cui sta dando vita, in quello spazio che si fa specchio, che viene conquistato. Uno spazio che forse funge proprio da faro puntato addosso per essere visibili in maniera invisibile: una fama, insomma, che ha il volto dell’anonimato. Perché – se ci si riflette – lo scrittore diventa famoso in uno spazio che è altro: quello delle sue pagine. Non è il nostro spazio (a quanti libri che teniamo in mano associamo un volto?), è uno spazio cartaceo; siamo noi ad aggiungere la componente visiva, immaginifica.

“Bisogna che un luogo diventi un paesaggio interiore, perché l’immaginazione prenda ad abitare quel luogo, a farne il suo teatro”: e il rapporto dello scrittore con lo spazio, forse, si esaurisce proprio qui, nell’atto di rendere lo spazio uno spazio interiore.

 

Leggi il precedente articolo del blog: https://www.nonsoloarte.blog/adoratori-della-bellezza-la-rivoluzione-dei-preraffaelliti-e-la-mostra-a-forli/  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

l'Autrice

Paola Pulvirenti

Mi chiamo Paola Pulvirenti, ho ventiquattro anni e frequento un master in Management dell’arte e dei beni culturali presso la Treccani. Sono nata a Leonforte, un piccolo paese nelle terre di Proserpina. Dopo aver vissuto gli anni della triennale a Catania, mi sono trasferita a Ravenna e ho concluso un percorso di laurea magistrale in storia dell’arte, volto alla tutela, alla valorizzazione e alla comunicazione del patrimonio.

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