Il 15 dicembre del 1675, a Delft, moriva Johannes van der Meer, passato alla storia come Johannes Vermeer. Aveva quarantatré anni, dieci figli ancora piccoli e parecchi debiti non saldati. Vermeer è sicuramente cristallizzato nell’immaginario comune – almeno ad un primo impatto – nello sguardo carico di enigma della “Ragazza con turbante”, nella rotazione del suo collo, nelle labbra socchiuse, nell’orecchino di perla che tanto ha ispirato scrittori e registi. Pensando a lui si pensa spesso a quegli occhi, si pensa a un invito che ti inchioda e ti infonde dentro l’assoluta certezza che, se mai la ragazza col turbante girasse la testa, tu la gireresti con lei, e saresti pronto a farti guidare con lo sguardo proprio da quei suoi stessi occhi scuri, che ormai ti sono entrati dentro.
Vermeer, però, è molto più di un orecchino di perla. Ricostruire la sua formazione è difficile per quanto sono lacunose le testimonianze a livello documentale, ma salta subito all’occhio la grande influenza dei caravaggisti nordeuropei, in particolare dell’ambito di Utrecht, e di uno dei massimi pittori del tempo, Rembrandt; si pensa infatti che proprio Carel Fabritius, un discepolo di Rembrandt, fu il suo maestro. Nel 1653, Vermeer venne ammesso alla gilda di San Luca, una corporazione di artisti e artigiani, e durante lo stesso anno sposò Catharina Bolnes, una donna proveniente da una ricca famiglia cattolica di Gouda. Il padre di Johannes, morto quando il giovane artista era poco più che ventenne, si occupava di una locanda, di tessuti e del commercio di quadri, attività che fece crescere Vermeer a contatto con l’arte e che non lo abbandonerà per tutto il corso della sua vita, in parallelo alla sua attività di artista.
La pittura di Jan Vermeer non è mai particolarmente maestosa o carica di pathos, le scene da lui rappresentate non sono mai tratte da grandi storie o popolate da moltitudini di gente. Non ebbe grande successo fra i contemporanei e morì quasi in miseria, ma in seguito fu secondo solo a Rembrandt nell’immaginario comune dei pittori olandesi. Amatissimo da molti e cercato nei musei con bramosia. Quando un pittore riesce a scalfire l’animo dei più, in genere, si combina ad una grande capacità tecnica anche la scelta della “lente” attraverso cui mostrare il mondo, la chiave di lettura che si dà di una scena, di una storia, di una vita. La lente scelta da Vermeer viene calata in una vita assolutamente quotidiana, popolata da poche persone, intime, dentro le case, per le vie. Ciò che vediamo osservando un suo quadro è ciò che avremmo visto passeggiando nella Delft di metà Seicento, girandoci ad osservare il riflesso delle case su di un canale, o entrando in una stanza, silenziosamente, e guardandoci intorno. Vermeer, però, utilizza per dipingere non solo delle gamme cromatiche chiare e luminose, ma sembra intingere il pennello direttamente nella luce. La luce diventa la vera protagonista di ogni sua opera e vibra attraverso ogni finestra, si riflette su ogni superficie, valica ogni vetro e ne risplende attraverso, invade ogni stanza e ogni via. L’eredità del grande realismo dei pittori fiamminghi si intreccia ad uno sguardo gettato in silenzio su scorci di vita quotidiana, ma filtrato dalla sensibilità del pittore che, alla fine, è ciò che veramente emerge.
Pensare a Vermeer come al pittore della luce, lo pone inevitabilmente in dialogo costante con Caravaggio, un dialogo antitetico ma incredibilmente coerente. “L’uno, per così dire, è figlio della notte, l’altro è figlio del giorno”, scrive lo storico dell’arte Claudio Strinati in un libro dedicato proprio al rapporto fra i due artisti e al loro diverso modo di rendere la luce indiscussa protagonista della rappresentazione. Caravaggio riscrive la storia dell’arte generando un potente fascio di luce, caricandolo di un’intensità che dà forza all’intera composizione, nella quale la luce domina con irruenza e realismo; Vermeer usa piuttosto la luce quasi a voler “bagnare” l’intera scena, la luce stessa diventa un filtro che invade la composizione e sembra emergere dalle pareti oltre che dalle finestre, ogni superficie ne diviene portatrice. La luce dilaga nelle sue composizioni immobilizzando il tempo e generando un realismo che si svolge in lentezza. La luce, in Caravaggio, sembra un faro puntato su una scena, ne mette in risalto il tratto ma sembra anche esaltarne la spettacolarità; Caravaggio possiede la luce, la domina. La luce di Vermeer svolge invece il ruolo completamente opposto, si adagia con dolcezza e delicatezza su ogni centimetro della tela e fa scivolare l’osservatore all’interno di una scena con la stessa lentezza che sembra dominare ogni tratto delle sue composizioni; l’artista la ricerca meticolosamente in ogni piccolo dettaglio, in una danza di pennellate che ne mette in risalto tutta la lucentezza. Vermeer è figlio del suo tempo, la sua è un’arte destinata ad una committenza privata, le sue tele sono destinate ad essere esposte non in una chiesa, osservate da una moltitudine a cui veicolare un messaggio, ma nascono come future compagne di chi le acquista, pronte a ricevere pochi sguardi ma molto più prolungati, dilazionati. E, forse, anche per questo il tempo all’interno delle sue opere sembra scorrere in maniera differente. Ogni azione è lenta, e anche il modo in cui essa verrà assaporata mette in conto una sua lentezza, che genera una perfetta armonia di tempistiche, di ritmi.
La luce di Vermeer è ciò che spinse Marcel Proust, in anni in cui le opere del pittore olandese non avevano ancora un grande successo, a scrivere: “Avete visto certi quadri di Vermeer, vi rendete conto che sono i frammenti splendenti d’un medesimo mondo, che è sempre, quale sia il genio che li ha rimessi al mondo, la stessa tavola, lo stesso tappeto, al stessa donna, la stessa nuova e unica bellezza, enigma, a quell’epoca dove nulla le somiglia né la spiega, se non si cerchi di apparentarla ricorrendo ai soggetti, ma di svincolarne invece l’effetto particolare che il colore produce”. Un concetto che sta alla base della concezione dell’arte a partire dall’Ottocento e per tutto il Novecento, ma che già in Vermeer, nell’attenta e oculata analisi di Proust, emerge con strabiliante forza. Una quasi totale spersonalizzazione di ogni elemento che riesce però, in maniera sorprendentemente contrastante, a dare carattere all’opera nel suo complesso.
Perché se è vero che la ricerca della luce impressa sulla tela può essere individuata come trait d’union della pittura dell’artista olandese, è anche vero che la volontà di rendere la luce una silenziosa protagonista della scena ha guidato più di un artista, con risultati molto diversi. Ciò che rende la luce di Vermeer tanto speciale è ciò che dalla luce emerge alla fine. La luce non illumina semplicemente la scena, sembra illuminare direttamente il colore, essa stessa assume un suo colore, generando una concezione platonica della pittura come pittura in sé, scissa dalla scena rappresentata, popolata da figure la cui identità sembra cadere del tutto in secondo piano. Il colore diviene identità. La luce dà colore a se stessa. Un perpetuo dialogo tra contenuto e forma, tra rappresentazione e archetipo, tra identità e spersonalizzazione: un’armonia il cui punto di inizio e cessazione risiede esclusivamente nel colore della luce.
Bergotte, il protagonista de “La Recherche” di Proust, muore proprio di fonte alla “Veduta di Delft” (in copertina), e muore con queste parole in bocca: “È così che avrei dovuto scrivere… I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo”.
La preziosità di Vermeer, della sua luce e del suo colore, della sua sensibilità e della lente attraverso cui ha deciso di imprimere per sempre su tela scene di vita quotidiana, lo hanno consacrato ad artista amatissimo. Oggi, esattamente 347 anni dopo la sua morte, ci rimane ancora il desiderio di seguire lo sguardo di quella Ragazza con il turbante, di ruotare il collo insieme a lei e di guardare attraverso i suoi occhi un poco del suo mondo, di risolvere un interrogativo che la sospensione del momento ci instilla nell’animo. E forse, ciò che vediamo osservando i quadri di Vermeer, può essere una piccola risposta.